Qualche dritta sul dialetto triestino, parlato abitualmente da tutti i residenti, sia in privato che nei pubblici esercizi.
Il dialetto triestino, abbondantemente parlato anche nei pubblici esercizi e nelle pubbliche amministrazioni, può risultare semplice per gli autoctoni, ma per tutti gli altri è un vero rompicapo. Tanto per cominciare perché i triestini parlano molto velocemente, poi perché c’è un continuo intercalare di espressioni “foreste” dovute al retaggio muticulturale.
Parlare un “buon” triestino è difficile, leggerlo è arduo (bisogna passare dalla parola scritta al suono) ma scriverlo è epico (e quindi non ce ne vorrete a male se abbiamo fatto qualche errore… le intenzioni erano delle migliori).
Cercheremo di dare qualche indicazione, utile (speriamo) per tutti, triestini e non.
Per chi volesse fare esercizio consigliamo i libri di Carpinteri e Faraguna (un po’ troppo istroveneti e poco triestini, a dire il vero…) e la più recente versione della “Divina Commedia” in dialetto triestino di Nereo Zeper.
Cominciamo con la fonetica.
Tanto per cominciare siamo tutti in grado di riconoscere un triestino quando parla in italiano… lo tradiscono gli accenti: quelle vocali apérte (perché, esistono anche quelle chiuse?) non lasciano dubbi. Inoltre lo scivolone linguistico prima o poi è inevitabile…
Tanto per fare un esempio (speriamo non se la prenda)… ma il buon Maldini, ai mondiali, ve lo ricordate????
Le dopie poi… inutili. Se basta una consonante per capirsi, perché volerne pronunciare due? Poi c’è il caso del triestino che per fare bella figura, magari con amici de fora, cerca di mettere le doppie ovunque anche dove non ci sono mai state e non ci saranno mai.
A voler fare i pignoli, le doppie ci sono… ma mute. Sì, proprio così, perché, a dirla tutta, servono a stringere la vocale precedente (anche nel tedesco succede qualcosa di analogo): l’Austria da Trieste non se ne è mai andata del tutto.
Nello scritto però le consonanti ci sono… e questo è un bel problema. Hanno un loro scopo, o almeno così crediamo. La doppia s si usa per indicare s aspra; esemplifichiamo: la parola italiana qualcosa in triestino si scrive qualcossa, dove la doppia s ha un simpatico suono tipo ts (secondo noi tipicamente slavofono… chi conosce lo sloveno capirà cosa intendiamo). Attenzione: all’inizio di parola la s è sempre aspra (esempio non tanto finoto [= non proprio di classe] ma scelto ad uso e consumo dei visitatori: sempio, sera quela scafa! [= sciocco, chiudi la bocca])
Un’eccezione è la parola xe (che significa è, voce del verbo essere)… dato che è l’unico caso in cui si usa la x scritta ma che suona come s, azzardiamo l’ipotesi che lo si faccia per indicare che il suono è più dolce della solita s sibilante di cui sopra.
La doppia z… boh? In ogni caso il suono triestino è sempre duro: lo zaino (z dolce in italiano) diventa el zaino, come se fosse zzaino, per capirsi.
Alle volte la c viene sostituita dalla z… qui non ci sono dubbi sull’influenza slovena, dove la c è una zeta aspra e si legge “zz”, appunto. Quindi, parole come cena, per i triestini si scrivono (e si pronunciano) zena.
Per restare in ambito slavofono, consideriamo il suono sc: il triestino non conosce il dolce suono italiano mentre ha un suono tutto suo, di matrice dell’est appunto, che si rappresenta con s’c. Cerchiamo di spiegarci un po’ meglio per chi di Trieste non è: il suono non scivola via ma si spezza in due suoni aspri (da cui probabilmente, la particolare scelta ortografica): mas’cio [=maschio] si legge mas (come nello spagnolo) e cio (come il ciò italiano).
Al contempo, il gruppo sc della grafia italiana viene ridotto ad s ad inizio parola e a ss all’interno. Esempio di infantile richiamo: la bissa che strissa nell’erba lissa (spiegare come si legge… beh, è chiedere troppo!)
Molto usato è il suono della c palatale (quella iniziale di cioccolata in italiano, di ciol = prendi in triestino). Attenzione però: contrariamente a quanto avviene “in lingua”, la c palatale esiste, ed è comunissima, anche a fine parola. Usatissima in molti cognomi (e in tal caso si scrive ch) non manca neppure nella terminologia di uso comune. La sua ortografia è controversa, noi, continueremmo ad indicarla con il ch, però è abbastanza soggettivo. Un esempio? Ploch o ploc = fanghiglia.
Il gruppo “gli” non dovrebbe esistere, ma con il tempo, almeno ortograficamente, è diventato di uso comune. Resiste la tradizione ancora in parole come meglio, che rimane meio… non osiamo pensare che orrore ci farebbe eser meglio de qualchedun [= essere migliori di qualcuno]… meio meio… la soddisfazione è maggiore.
Il gn invece c’è, sia per i gnochi (e qui la traduzione non serve) che per il gnanca [=nenache]
Fortunatamente la sintassi triestina è piuttosto semplice, anche se un po’ ridondante… abbondano le particelle pronominali ma soprattutto i che: mai lesinare i quando che, dove che, come che, solo che e così via… altrimenti non è triestino.
Di regola anche gli a mi me (esempio: a mi me piasi = mi piace). I complementi di termine, cioè gli “a me”, fioriscono e danno maggior enfasi a tante frasi, anche se il verbo, transitivo, di regola, non prevederebbe l’uso del complemento incriminato. Ma qui la cosa si fa troppo complessa.
Tutta questa abbondanza fa inorridire molti linguisti e grammatici, però toglierla vorrebbe dire snaturare il dialetto.
Ma ben più raccapriccianti sono gli usi, impropri ovviamente, delle voci verbali… un affascinante mistero per i triestini, che hanno rielaborato il tutto a modo proprio.
La vera chicca sono congiuntivi e condizionali, usati… a casaccio. Si sente di tutto di più , cercare di definire una regola è impossibile… proprio per fare i pignoli, diremmo che, statisticamente parlando, l’inversione congiuntivo – condizionale è quella che va per la maggiore (se saria libero, ‘ndassi sicuro = se fossi libero da impegni, vi andrei certamente). Tutte le altre forme sono comunque ben accette.
A sorpresa, il congiuntivo viene invece usato tantissimo: cossa el pensa, che mi sia mona? = crede forse ch’io sia sciocco?)
La cosa più divertente di ogni lingua o dialetto sono quelli che gli anglosassoni chiamano “false friends”, gli insospettabili, quelle paroline che sembrano banali ma che invece…
Cominciamo dal più comune: imparar significa insegnare, imparare viene invece reso con la forma riflessiva del verbo (evidenti i condizionamenti linguistici stranieri). Quindi: la maestra ghe impara (=la maestra gli insegna) ma el se ga beh imparà a scriver (=ha imparato a scrivere bene).
Ancora due esempi (potremmo però andare a vanti a lungo): scovar non vuol dire scoprire ma scopare (perché la scova è la scopa), i muli sono i ragazzi e non i ciuchini (mule al femminile).
Una menzione a parte ci vuole per cior e ciapar: apparentemente sinonimi, si traducono entrambi con prendere, non sono però assolutamente intercambiabili. Noi azzardiamo una spiegazione, perdonateci se stiamo sbagliando: si usa cior quando si prende intenzionalmente un oggetto materiale (go ciolto un gato = ho adottato un gatto), mentre ciapar è per i casi di non intenzionalità (el ga ciapà un bidon = ha preso una fregatura) o di non concretezza (non sta ciapar tropo sol = non esporti eccessivamente ai raggi solari).
Per concludere, una piccola parentesi sulle offese e le male parole, ad uso e consumo dei turisti.
Il triestino non è un dialetto particolarmente raffinato, ve ne sarete già accorti, e le espressioni non proprio garbate abbondano (oltre ad essere molto colorite). La parolaccia per eccellenza è però mona: letteralmente sarebbe l’organo genitale femminile, in realtà si usa con un infinità di accezioni, dal mona puro e semplice (sciocco, scemo ecc.) al va in mona (che tradurremmo con va a quel paese). Retaggio spagnolo? Chissà…
Un consiglio per i visitatori: non datevi troppa pena se venite così apostrofati, magari davanti a un semaforo verde (e voi, in pole position, non siete ancora partiti): un’alzata di spalle e tutto si sistema.
Prima di concludere è d’obbligo un ringraziamento. Per la stesura di questo breve testo ci siamo liberamente ispirati ad un testo che girava anni fa in rete, di autore anonimo, e che non siamo mai riusciti a rintracciare: a lui la nostra più sentita riconoscenza.